21 ottobre 2012

L'Italia e i migranti: persone oltre i numeri

 Persone, volti, storie dietro i numeri

L'odissea di un bambino in fuga dall'Afghanistan

L'
Afghanistan da decenni è dilaniato da continui conflitti e oppresso dal regime instaurato dai talebani nel 1996. L'organizzazione politico-militare talebana è fortemente repressiva e si basa su una rigida interpretazione del Corano. Il governo talebano è stato rovesciato nel 2001 dall'intervento militare statunitense, ma ancora oggi la guerra persiste nel Paese e le forze talebane guidano un movimento insurrezionale sempre più violento contro le forze governative e la coalizione internazionale, nel tentativo di riconquistare il potere. Il Paese è sempre più instabile, sconvolto da ripetuti attentati attacchile cui 
principali vittime sono i civili.

Syed Hasnain
Syed Hasnain, rifugiato afgano, orfano di un capo talebano, l'11 dicembre 2019 all'età di 30 anni, ha conseguito la laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali all'Università "La Sapienza" di Roma.
"Sono figlio di un comandante talebano morto per Allah e il mio destino era diventare anch'io un martire. Io sono stato fortunato, ma sono anche la dimostrazione che gli immigrati, quando hanno l'opportunità e quando sono trattati con umanità, sono una risorsa: per me l'Italia oggi è tutto, è la mia terra santa. Posso dire di essere nato per la seconda volta a 10 anni, quando mia madre mi mise in salvo sottraendomi a quello che sarebbe stato il mio destino: combattere con i talebani e probabilmente morire come è stato per mio padre e un mio fratello maggiore. E dire che per me, bambino, era bello e normale essere chiamato a combattere. Quello avrei voluto fare anch'io a 10 anni. E invece mi ritrovai improvvisamente da solo in Pakistan nel giro di poche ore. Sono nato a Lashkargah, nel sud dell'Afghanistan, da una famiglia Pashtun. Mio padre era un comandante delle milizie talebane, un uomo molto rigido e temibile, tutto preghiera e combattimento, pronto a morire per la jihad, due mogli e nove figli. Mia madre, la sua seconda moglie, però è di etnia hazara e questo rendeva le cose complicate: io ero il penultimo figlio. Un giorno a casa mia, io ero ancora piccolo, bussarono due uomini con una lunga barba e i mitra. Alle due mogli di mio padre dissero: "È andato in paradiso, da bravo martire di Allah". E lì cominciò a cambiare la mia vita. I miei fratelli maggiori partirono per combattere. È così che funziona in Afghanistan. Se muore il padre devono andare i figli maschi. Ricordo che assistetti alla loro vestizione da soldati di Allah, ero affascinato. Mia madre invece era angosciata. Lei aveva avuto tre figli tutti maschi da mio padre e non voleva altri eroi. Ma mio fratello maggiore, Shahsawar, dovette partire e non tornò più dalle montagne. E un giorno un uomo con un semplice cenno del capo verso il cielo, ci fece capire che anche lui era morto. "Syed, hai dieci anni, ormai sei grande. Tra un po' toccherà a te partire", mi disse.
Fu in quel momento che mia madre trovò il coraggio di ribellarsi al destino. Qualche giorno dopo uscimmo una mattina per andare al mercato. Lì mi consegnò ad un uomo dicendomi: "Vai con lui a Kandahar a comprare dei vestiti nuovi. Ti riporterà a casa stasera". Io obbedii e la mattina dopo mi ritrovai in Pakistan. "Tranquillo - mi disse quell'uomo - tua madre ti ha pagato il viaggio per salvarti dai talebani". Ero disperato, mi sentivo tradito, la odiavo. Finii dal proprietario di una tavola calda, con altri bambini, a servizio. Lavoravo e andavo a scuola la sera. In quegli anni cominciai a capire che grande gesto aveva fatto mia madre. E così quattro anni dopo, quando improvvisamente mi trovai di fronte due dei miei fratellastri che erano riusciti a rintracciarmi e volevano portarmi a combattere con loro, capii che non volevo più quello. E la notte cominciò la mia grande fuga. Avevo 14 anni. Prima mi hanno arrestato in Pakistan perché ero senza documenti, poi mi hanno rimandato in Afghanistan e
da lì ho deciso di partire per l'Europa. Ad ogni tappa lavoravo per procurarmi i soldi per pagare i trafficanti della tratta successiva. Sul barconedalla Turchia alla Grecia, ho pensato di morire per la prima volta. Chiuso nella stiva per tre giorni senza respirare altro che i fumi del motore. In Grecia ho pagato gli ultimi 3000 euro per infilarmi sotto un Tir che si imbarcava sulla nave per Brindisi: da una parte la ruota, dall'altra il motore. Quando il Tir è sbarcato a Brindisi e ha preso l'autostrada stavo per morire ustionato. Dovevo farlo fermare. Ho rotto la coppa dell'olio e il camion si è fermato. Sono sceso e ho cominciato a correre come un matto. Dopo due giorni nascosto in campagna vicino a Benevento ho incontrato un uomo, un pizzaiolo che mi ha portato a casa, mi ha rifocillato, mi ha ospitato per qualche giorno. È stato il primo gesto di umanità della mia vita, avevo sempre ricevuto violenza e odio. E così ho deciso che l'Italia sarebbe stata la mia nuova terra. Sono andato a Roma, ho dormito per strada in tenda per settimane, poi sono stato accolto dalla cooperativa Amarilli, ho presentato richiesta di asilo, ho avuto modo di studiare e lavorare come mediatore culturale, di integrarmi. I miei professori mi avevano consigliato studi tecnici per trovare lavoro, ma io ho sempre amato studiare e mi sono iscritto all'Università. E oggi mi laureo con una tesi su "La partecipazione dei rifugiati nei processi decisionali". Sono presidente dell'associazione rifugiati Unire e lavoro con i minori stranieri non accompagnati. Ho riabbracciato mia madre dopo 12 anni in Pakistan dove è fuggita quando in Afghanistan sono arrivati gli americani. Le ho fatto conoscere mio figlio Taha. Avrei voluto portarla in Italia, ma lei è anziana, molto religiosa e non se la sente di vivere gli ultimi anni della sua vita in un Paese così diverso. Le devo tutto. Ma voglio ribadirlo: basta un piccolo gesto di accoglienza, un'opportunità, un po' di umanità come ho ricevuto io e un immigrato diventa una risorsa".

Le parole di Syed sono tratte dall'intervista pubblicata su "La Repubblica" l'11 dicembre 2019 nell'articolo di Alessandra Ziniti intitolato L'orfano della jihad. "Dovevo morire. L'Italia mi ha salvato e oggi mi laureo".
Ascolta l'intervista a Syed (trasmissione "Stati generali", Rai 3 10 gennaio 2020) cliccando sul link: https://www.youtube.com/watch?v=2RPRMqssvvA (durata del video: 14.16)

Un "tesoro perduto" in fuga dall'Africa:
  il naufrago maliano con la pagella
Le rotte dei migranti provenienti dall'Africa
                     
La vignetta di Makkox
intitolata "Tesori perduti" 
("Il Foglio", 11 gennaio 2019)
Grazie a questa vignetta del fumettista Makkox, pubblicata nel 2019, il grande pubblico ha scoperto la storia di una delle tante vittime senza nome e senza volto di un naufragio di migranti avvenuto nelle acque di Lampedusa 4 anni prima, il 18 aprile del 2015, uno dei più gravi per numero di vittime. Il ribaltamento di un vecchio peschereccio al largo delle coste della Libia provocò la morte di circa 700 profughi, di cui molte donne e minori, stipati sull'imbarcazione o chiusi a chiave nella stiva, dove erano ammassate 5 persone a metro quadro. Solo 28 uomini sopravvissero. Il governo italiano decise di recuperare il barcone affondato e i corpi dei naufraghi per provare a identificarli e per dare loro una degna sepoltura. Nacque così un progetto tutto italiano, coordinato dall'Ufficio del Commissariato straordinario del Governo per le persone scomparse (UCPS), a cui collaborarono molte istituzioni: la Marina Militare, i Vigili del fuoco e decine di università. Le operazioni di recupero, molto difficoltose, si conclusero nell'estate del 2016. Uno dei corpi recuperati è quello che Makkox ha immaginato nella sua vignetta, provando a dargli un volto. Era un ragazzo di 14 anni, proveniente dal Mali, senza documenti di identità ma con qualcosa di più prezioso, talmente importante da averlo cucito addosso per essere sicuro di non perderlo: la sua pagella scolastica. Sperava di continuare a studiare. Questo sappiamo di lui. Lo sappiamo grazie all'analisi dei suoi resti, affidata al medico Cristina Cattaneoprofessoressa di Medicina Legale presso l'Università degli Studi di Milano, e da lei raccontata nel libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, pubblicato nel 2018 (vincitore del Premio letterario Galileo per la divulgazione scientifica). Nel libro "fa parlare" i corpi delle vittime del Mediterraneo, che raccontano come si può "morire di speranza". 
Il barcone del naufragio 
del 18 aprile 2015 su cui viaggiava anche 
il ragazzino con la pagella cucita addosso,
recuperato dalla Marina Militare.
Sul fianco sono visibili le aperture 
fatte per estrarre i corpi dalla stiva
La prof. Cattaneo ricorda che il giovane naufrago colpì particolarmente tutto il team impegnato a restituirgli un'identità: era "vestito con una giacca simile a un piumino, un gilé, una camicia e dei jeans. Iniziammo a svestirlo. Mentre tastavo la giacca, sentii qualcosa di duro e quadrato. Tagliammo dall'interno per recuperare, senza danneggiarla, qualunque cosa fosse. Mi ritrovai in mano un piccolo plico di carta composto da diversi strati. Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna, le parole un po' sbiadite mathematiques, sciences physiques... Era una pagella. "Una pagella", qualcuno di noi ripeté a voce alta. Tutti si avvicinarono e ci furono diversi secondi di silenzio [...] Pensammo tutti la stessa cosa, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, ormai ridotto a poche pagine scolorite intrise di acqua marcia?" 
Una pietra d'inciampo dedicata da una scuola
al giovane naufrago 
Sull'onda emotiva della vignetta di Makkox, a sua volta ispirata dal racconto della prof. Cattaneo, nel 2019 alcune scuole di Vercelli hanno simbolicamente aperto le loro porte al naufrago con la pagella: hanno voluto ricordare il ragazzino del Mali con una pietra d'inciampo, un sampietrino con placca in ottone posto all'ingresso degli istituti che il bambino avrebbe potuto frequentare (ispirato ai sampietrini in ricordo dei deportati della Shoah, collocati accanto alla casa da cui la vittima fu prelevata). Ecco alcune delle dediche incise sulle targhe: "Al giovane del Mali morto il 18 aprile 2015 portando una pagella sul cuore. Questa scuola avrebbe accolto lui e le altre persone che annegano cercando di attraversare il mare"; "Qui aspettavamo il giovane del Mali morto annegato il 18 aprile 2015 portando una pagella sul cuore. Ogni insegnante giusto l'avrebbe accolto."  
Anche lo street artist Jorit nel 2019 ha voluto regalare un volto e un nome al giovanissimo profugo, dedicandogli un murale a Palma Campania. Ne ha immaginato i lineamenti e lo ha soprannominato Kukaa che in lingua swhaili significa "restare", per rivendicare il diritto di tutti a restare nella propria terra. Nella parte alta dell'opera l'artista ha raffigurato il volto di Thomas Sankara, il "Che Guevara africano", primo presidente del Burkina Faso, ucciso nel 1987.



Ascolta l'intervista al medico legale Cristina Cattaneo che ha analizzato i resti del giovane naufrago (TG 2000 Post, marzo 2019, durata: 4.13): 


Gli sbarchi sulle coste italiane

Le principali rotte dei migranti via terra e via mare

Perché in Italia?
L'Italia, per la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo, è la meta privilegiata dell'immigrazione proveniente dalle coste tunisine e libiche. Insieme alla Grecia a est e alla Spagna a ovest, è una delle "porte dell'Europa".




I Paesi d'origine e i motivi della fuga
I flussi migratori si sono intensificati a partire dal 2011, l'anno delle cosiddette "primavere arabe", movimenti di protesta contro regimi e governi autoritari e repressivi, iniziati durante l'inverno 2010-2011 in Nord Africa (Tunisia, Libia, Marocco, Egitto) e in alcuni Paesi del Medio Oriente (tra cui Siria e Yemen). Le proteste popolari hanno creato situazioni di grave instabilità politica e di pesanti violazioni di diritti umani: repressioni violente dei manifestanti, arresti di massa, torture. In alcuni casi, come in Libia e in Siria, sono sfociate in vere e proprie guerre civili che continuano a causare migliaia di vittime civili e a favorire l'affermazione e l'espansione di gruppi terroristici di matrice islamica
Dal 2013 le crisi geopolitiche in Africa e in Medio Oriente hanno determinato un ulteriore aumento dei flussi e la situazione si è aggravata nel 2015 e nel 2016, anni in cui migliaia di profughi hanno affrontato la traversata del Mediterraneo e sono sbarcati in Italia. Nel 2015 i migranti erano in fuga per lo più da Siria, Afghanistan, Eritrea, nel 2016 e nel 2017, secondo i dati forniti dall'UNHCR e dal Ministero dell'Interno, principalmente da Paesi dell'Africa subsahariana: Nigeria, Eritrea,  Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Mali (il Paese del ragazzino con la pagella), Sud Sudan, Somalia. Tra il 2017 e il 2018 tra le prime quattro nazionalità, dopo l'Eritrea (dove vige da più di vent'anni un regime militare durissimo), compaiono anche Pakistan, Tunisia e Libia. Nel 2020 in testa alla classifica figurano Tunisia, Bangladesh, Costa d'Avorio. Si tratta di Paesi sconvolti da crisi politiche, sociali, economicheI flussi migratori sono infatti l'inevitabile conseguenza degli squilibri e delle disuguaglianze economiche e sociali tra il Nord e il Sud del mondo, alimentate anche da nuove forme di colonialismo
Gli stranieri che raggiungono le nostre coste a rischio della propria vita sono dunque soprattutto profughi che scappano dal proprio Paese a causa di guerre civili (Siria, Libia), organizzazioni terroristiche (i Talebani in Afghanistan e in Pakistan, l'ISIS in Siria e in Iraq, Al-Shabaab in Somalia, Boko Haram in Nigeria), regimi dittatoriali (come quella di Isaias Afewerki in Eritrea), persecuzioni (politiche, religiose, razziali) e che chiedono asilo, ossia protezione internazionale. Il nostro Paese riconosce il diritto d'asilo che è sancito dall'art. 10 della Costituzione: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica". A Syed Hasnain, ad esempio, l'Italia ha riconosciuto lo status di rifugiato politico, previsto dalla Convenzione ONU di Ginevra del 1951: il rifugiato è chi teme “a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche" nel suo Paese.
Circa il 10-15% dei migranti sono minori non accompagnati, ossia soli, privi di assistenza da parte dei genitori o di altri adulti, come dimostra proprio la storia di Syed Hasnain.
Tuttavia non bisogna dimenticare che gran parte delle persone non si ferma in Italia, perché prosegue il viaggio verso i Paesi del Nord Europa, sia per raggiungere parenti o comunità sia per trovare un sistema di protezione e di integrazione più efficiente. 

Il "Viaggio" e la traversata del  Mediterraneo
La pista dei migranti per la Libia attraverso il deserto
La traversata del Mediterraneo resta tuttora per molti l'unico modo per raggiungere l'Europa, ma è solo l'ultimo tratto di un viaggio lungo, costoso, stremante e pericoloso. 
Il "Viaggio", quando non uccide, produce ferite invisibili ma profonde: violenze, traumi, perdita dei propri cari. I migranti in fuga da Paesi africani (Eritrea, Somalia, Sudan), molti dei quali sono minori non accompagnati, per raggiungere i porti libici o egiziani attraversano il deserto in condizioni disumane, sono spesso vittime di sequestri e detenzioni, subiscono furti, violenze sessualitorture e ricatti. Il viaggio può durare anche più di due anni e può costare più di 20.000 dollari.
Centro di detenzione di migranti in Libia
Se riescono a raggiungere i porti del Nord Africa, molti, donne e bambini inclusi, subiscono l'orrore di mesi di torture e soprusi nei centri di detenzione in Libia. Anche l'ultima tappa per l'Europa, ossia la traversata del Mediterraneo, è particolarmente rischiosa: nel corso degli anni migliaia di persone sono morte nel Canale di Sicilia, che è diventato il tratto di mare e il confine più pericoloso del pianeta. Uno dei naufragi più gravi degli ultimi anni per numero di vittime è avvenuto nella notte del 18 aprile 2015: il ribaltamento di un vecchio peschereccio al largo delle coste della Libia provocò la morte di circa 700 profughi, di cui molte donne e minori, stipati sull'imbarcazione o chiusi a chiave nella stiva, dove erano ammassate 5 persone a metro quadro. Solo 28 uomini sopravvissero. Il governo italiano decise di recuperare il peschereccio affondato e i corpi dei naufraghi per provare a identificarli e dare loro una degna sepoltura. Nacque così un progetto tutto italiano, coordinato dall'Ufficio del Commissariato straordinario del Governo per le persone scomparse (UCPS), a cui collaborarono molte istituzioni: la Marina Militare, i Vigili del fuoco e decine di università. Le operazioni di recupero, molto difficoltose, si conclusero nell'estate del 2016. Uno dei minori il cui corpo fu recuperato è il ragazzino maliano con la pagella cucita addosso. 
Il relitto dell'imbarcazione naufragata il 3 ottobre 2013
Foto di Francesco Zizola
Ma è il naufragio avvenuto due anni prima, il 3 ottobre 2013, a essere diventato, nella memoria collettiva, un simbolo delle tragedie delle migrazioni: un barcone con 518 persone a bordo, per lo più eritrei in fuga dalla dittatura militare, che avevano pagato 1600 dollari a testa, si capovolse a largo di Lampedusa, causando la morte di 368 persone. Quella data dal 2016 è diventata la Giornata della memoria e dell'accoglienza, dedicata alle vittime delle migrazioni.
Un'operazione di soccorso di "Mare nostrum"
Fu pochi giorni dopo questa strage che il governo italiano decise di varare l'operazione "Mare nostrum": le navi della Marina militare furono inviate sia a sud di Lampedusa, per pattugliare le acque territoriali davanti alla Libia, sia a est per intercettare i barconi carichi di siriani, provenienti dalla Turchia e dall'Egitto. In un anno di attività l'operazione soccorse circa 156.000 persone, più di 413 persone al giorno. Ma la missione fu sospesa alla fine di ottobre 2014.
Da allora gli sbarchi non solo sono aumentati ma sono continuati in modo più disordinato. Il vuoto di azione lasciato dalla chiusura di "Mare nostrum" è stato colmato dalle missioni Search & Rescue organizzate da varie ONG (MSF, Open Arms e altre), che non solo rappresentano tuttora l'unica salvezza per i migranti in pericolo di vita ma sono anche gli unici testimoni della crisi umanitaria che continua a consumarsi quotidianamente nel nostro mare e che rischia di diventare invisibile.

Il Mediterraneo, mare di dolore e di morte
Barcone carico di migranti al largo delle coste libiche.
Con questa immagine, scattata dall'alto il 7 giugno 2014,
 il fotografo italiano Massimo Sestini
ha vinto un World Press Photo Award
Il Mediterraneo si è guadagnato il tragico primato di rotta più mortale del pianeta per i migranti ed è diventato negli ultimi anni un vero e proprio cimitero marittimo, la più grande fossa comune: più di 15.000 sono le persone che hanno perso la vita nelle sue acque negli ultimi cinque anni.
A causare un così alto numero di decessi, oltre al rischio legato alle condizioni del mare, è il modo con cui viene gestita la partenza da trafficanti senza scrupoli che lucrano sulla speranza di chi tenta di fuggire dalla povertà o dalla guerra, soprattutto sulla rotta libica: chiedono migliaia di dollari per il "passaggio" illegale via mare e ammassano i profughi su imbarcazioni inadeguate riempite all’inverosimile.
Da quando l'Europa ha sospeso le operazioni di ricerca e soccorso in mare, ha adottato politiche di difesa dei confini e di contenimento dei flussi, come i "porti chiusi", gli accordi con la Turchia per bloccare i profughi in Medio Oriente o quelli tra Italia e Libia per la gestione dei flussi provenienti dall'Africa, le vittime della traversata sono aumentate.
La nave Aquarius con cui le ONG MSF e SOS Mediterranee
dal 2016 al 2018 hanno assistito circa 30.000 persone
Eppure l’obbligo di soccorso in mare è previsto dal diritto internazionale (la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare, ratificate anche dall'Italia), in base al quale il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, un porto in cui la loro vita non sia più in pericolo e i diritti umani fondamentali siano loro garantiti 
Attualmente sono davvero poche le ONG che continuano a svolgere le operazioni di soccorso nel Mediterraneo tra tante difficoltà, ostacoli e polemiche, a causa delle politiche restrittive adottate dall'Italia e dall'UE in nome della sicurezzaUn esempio emblematico delle difficoltà nella gestione del fenomeno migratorio è il caso della Ong tedesca Sea Watch 3. La comandante della nave, Carola Rackete, fu arrestata nel giugno del 2019 in virtù del controverso "Decreto Sicurezza bis" (voluto dall'allora ministro dell'interno Matteo Salvini), perché decise di forzare il divieto di entrare nel porto di Lampedusa, pur di portare a terra i migranti soccorsi a largo della Libia, ormai allo stremo dopo vari giorni di navigazione e clamorosi ritardi e rifiuti
Vignetta di MaPe dedicata a Carola Rackete
nell'assegnazione di un porto sicuro. Nel febbraio 2020 la Corte di Cassazione ha confermato la non convalida dell'arresto di Carola Rackete (già decisa dalla gip di Agrigento), stabilendo che la comandante aveva agito correttamente, rispettando l'obbligo di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro. L'ex ministro dell'Interno è invece attualmente accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio, per un caso analogo, ossia per “aver tenuto in mezzo al mare, per sei giorni, 147 migranti salvati dall’Ong Open Arms, nell’agosto 2019".
La criminalizzazione di chi salva vite umane è una delle derive della cultura dei diritti dei nostri tempi.
Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa nel rapporto A distress call for human rights, pubblicato il 9 marzo 2021, ha condannato le politiche con cui gli Stati europei contrastano le attività di ricerca e salvataggio in mare delle ONG, preferendo invece affidare alle milizie e alle guardie costiere dei paesi di transito, come la Libia, il respingimento dei migranti intercettati in mare: «I paesi europei non riescono a proteggere rifugiati e migranti che cercano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. L’arretramento nella protezione delle vite e dei diritti di rifugiati e migranti sta peggiorando e causando migliaia di morti evitabili ogni anno».

FontiFortress Europe; Caritas Italiana; Amnesty International; rivista di Emergency; Save the Children; UNHCR; Ministero dell'Interno.


 Un altro sistema è possibile
Numerose organizzazioni, enti e sindacati, attraverso appelli e campagne di sensibilizzazione, come il Manifesto della campagna "#Io accolgo"da cui sono tratti i punti che seguono, contestano le politiche sempre più restrittive adottate nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti sia dall'Italia sia dall'Europa. Ecco alcune loro richieste e proposte:
  1. Si stabilisca un programma efficace di ricerca e salvataggio in mare a livello europeo e venga adottato un sistema per un’equa distribuzione dei richiedenti asilo tra i diversi Stati dell’UE;
  2. i nostri porti siano aperti ad accogliere i naufraghi, che più nessuno sia lasciato a morire in mare, che cessino immediatamente gli interventi e gli accordi finalizzati a riportare in Libia uomini, donne e bambini che fuggono dalle torture nei centri di detenzione libici e da guerre, dittature e povertà estrema nei loro Paesi d’origine;
  3. si prevedano canali di ingresso regolari, come i corridoi umanitari (vie legali e sicure, sperimentate con successo in Italia e replicabili in qualsiasi Stato europeo, che permettono ai profughi un ingresso nel territorio italiano con visto umanitario), in modo che le persone non siano più costrette ad affidarsi ai trafficanti e a rischiare la vita nel tentativo di entrare in Europa; 
  4. siano garantiti un’accoglienza dignitosa e percorsi di inclusione efficaci, con servizi come i corsi di italiano, l’orientamento lavorativo e la mediazione interculturale, attraverso reti territoriali di accoglienza e inclusione gestite dagli Enti locali e dalla società civile (sistema ex SPRAR);
  5. sia rilanciata una politica estera e di cooperazione allo sviluppo, in modo da promuovere la pace e i diritti umani e ridurre le disuguaglianze nel mondo, affinché le persone non siano più costrette a lasciare il proprio Paese per fuggire da conflitti, regimi autoritari e condizioni di vita insostenibili, che spesso gli stessi Stati europei hanno contribuito a creare.
Fake news e pregiudizi sui migranti
1. L'invasione. Non esiste. In Europa ci sono 38,6 milioni di cittadini stranieri, il 7,5% della popolazione. In Italia sono 5 milioni, l'8,5%.
2. Ci rubano il lavoro. Gli stranieri occupati sono 2.423.000, il 10,5% del totale. Un dipendente italiano inoltre guadagna il 25,5% in più di uno straniero.
3. Li manteniamo noi. Niente di più falso. Gli stranieri generano 19,2 miliardi di euro di introiti per lo Stato. Per loro si usa solo il 2,1 % della spesa pubblica nazionale.
4. Vengono solo qua. L'85% dei rifugiati grava sui Paesi in via di sviluppo: 3,5 milioni in Turchia, 1,4 milioni in Pakistan, 1.350.000 in Uganda, 1 milione in Libano.
Fonte: Mediterranea Saving Humans (2019)

Libri per capire: 
voci si chi accoglie, voci di chi migra
  1. Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, 2017. 
    C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico e civilizzato, e il Sud, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la vicenda degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse. Video (Leogrande parla del suo libro; durata: 15.04).
  2. Cristina Cattaneo, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Raffaello Cortina editore, 2018. 
    "Il corpo di un ragazzo con in tasca un sacchetto di terra del suo paese, l’Eritrea; quello di un altro, proveniente dal Ghana, con addosso una tessera della biblioteca pubblica del suo villaggio; i resti di un bambino che vestono ancora un giubbotto la cui cucitura interna cela la pagella scolastica scritta in arabo e in francese. Sono i corpi delle vittime del Mediterraneo, morti su barconi fatiscenti nel tentativo di arrivare nel nostro paese, che raccontano di come si può “morire di speranza”. A molte di queste vittime è stata negata anche l’identità. L’emergenza umanitaria di migranti che attraversano il Mediterraneo ha restituito alle spiagge europee decine di migliaia di cadaveri, oltre la metà dei quali non sono mai stati identificati. Questo libro racconta, dal punto di vista personale di un medico legale, il tentativo di dare un nome a queste vittime dimenticate da tutti, e come questi corpi, più eloquenti dei vivi, testimonino la violenza e la disperazione del nostro tempo." Video (Cristina Cattaneo racconta il suo lavoro e il suo libro; durata: 6.07)
  3. Marco Rizzo, Lello Bonaccorso, Salvezza, Feltrinelli, 2018
    Tante righe sono state scritte, tante pagine sono state riempite, per raccontare il viaggio dei migranti. Conosciamo molte storie su chi parte, lasciando alle spalle guerre, persecuzioni e miserie. I giornali ci hanno raccontato l’accoglienza, come modello di integrazione o di business malato. Pochi, però, sono i racconti su quel momento di contatto tra chi viaggia nella disperazione e chi accoglie con coraggio. Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso salgono a bordo di una nave di soccorso di una ONG, per il primo reportage a fumetti da un’operazione di salvataggio. I due autori sono testimoni delle operazioni. E intervistano gli organizzatori, l’equipaggio, i mediatori culturali, ma anche i migranti. Video (mini-documentario sul dietro le quinte del graphic novel; durata: 8.09)
  4. Roberto Saviano, Nel mare non esistono taxi, Contrasto, 2019.
    Una raccolta di fotografie dei più grandi autori internazionali che hanno documentato il tema si intreccia con il racconto di Saviano che a sua volta le contestualizza con i suoi commenti, analizzando anche in dettaglio i casi più significativi che sono stati pubblicati sulla stampa. Da Alan a Josefa, passando per il racconto del caso Diciotti. Da dove partono i migranti? Perché sono costretti a fuggire da alcune regioni dell’Africa passando per la Libia, dove vengono trattenuti a forza nei centri di detenzione, e costretti a pagare cifre vertiginose per potersi imbarcare alla volta dei paesi europei? Questi viaggi sono sempre molto estremi, i barconi sono vecchi e sovraccaricati, le condizioni disumane. Un ruolo fondamentale dal punto di vista umanitario è svolto proprio dalle ONG, definite colpevolmente “taxi del mare” e allontanate dal mare dove la loro presenza era un soccorso fondamentale, unico. Saviano dà spazio anche ai volti degli operatori di Medici Senza Frontiere che salvano le persone in mare, con i loro ritratti sul campo. Così nel libro troviamo anche una conversazione con Irene Paola Martino, infermiera della nave Bourbon Argos. La voce di Roberto Saviano, con le sue lucide riflessioni, accompagna il lettore attraverso questo percorso visivo e umano dando la parola in particolare anche a quattro grandi interpreti della fotografia internazionale che si sono distinti per il loro lavoro sul tema dell’immigrazione: Paolo Pellegrin, Giulio Piscitelli, Olmo Calvo e Carlos Spottorno. In mare non esistono taxi è dedicato ad Alessandro Leogrande ed è stato realizzato in collaborazione con Medici senza Frontiere. Video1 (Saviano presenta il libro; durata: 2.29). Video 2 (Saviano presenta il libro in una puntata della trasmissione "Carta bianca" Rai3; durata: 15.38)
  5. Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini Castoldi, 2010
    Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti esserne il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Ma ora stai diventando troppo grande per la buca che tua madre ha scavato vicino alle patate. Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo per bene e ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l'incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l'Iran, la Turchia e la Grecia. Un'odissea che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l'ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso. Enaiatollah ha infine trovato un posto dove fermarsi e avere la sua età.
    Questa è la sua storia. Il libro si apre con le ultime parole che la madre rivolse a Ena l'ultima volta che sono stati insieme, prima che lei lo lasciasse in Pakistan nella speranza di salvargli la vita: "Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe. Ce ne sono che hanno un odore e un sapore buono e ti sussurrano alle orecchie che sapranno farti stare meglio di come tu potrai mai stare senza di loro. Non credergli. La seconda è non usare le armi. Anche se qualcuno farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, promettimi che la tua mano non si stringerà mai attorno a una pistola, a un coltello, a una pietra. La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno. Sarai ospitale e tollerante con tutti." Tradotto in 33 Paesiquesto libro-intervista ha il merito di essere stato uno dei primi a far conoscere a un vasto pubblico, anche giovane, l'odissea dei profughi e la realtà dei migranti minori non accompagnati. Video1 (Fabio Geda racconta il libro nel 2010; durata: 4.28). Video 2 (Enaiatollah presenta il libro nel 2010; durata:1.30).  Video 3 (intervista a Enaiatollah Akbari del 2012; durata: 12.24).
  6. Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura, Feltrinelli, 2015
    Samia è una ragazzina di Mogadiscio. Ha la corsa nel sangue. Ogni giorno divide i suoi sogni con Alì, che è amico del cuore, confidente e primo, appassionato allenatore. Mentre intorno la Somalia è sempre più preda dell'irrigidimento politico e religioso, mentre le armi parlano sempre più forte la lingua della sopraffazione, Samia guarda lontano, e avverte nelle sue gambe magre e velocissime un destino di riscatto per il paese martoriato e per le donne somale. Gli allenamenti notturni nello stadio deserto, per nascondersi dagli occhi accusatori degli integralisti, e le prime affermazioni la portano, a soli diciassette anni, a qualificarsi alle Olimpiadi di Pechino. Arriva ultima, ma diventa un simbolo per le donne musulmane in tutto il mondo. Il suo vero sogno, però, è vincere. L'appuntamento è con le Olimpiadi di Londra del 2012. Ma tutto diventa difficile. Gli integralisti prendono ancora più potere, Samia corre chiusa dentro un burqa ed è costretta a fronteggiare una perdita lacerante, mentre il "fratello di tutta una vita" le cambia l'esistenza per sempre. Rimanere lì, all'improvviso, non ha più senso. Una notte parte, a piedi.
    Rincorrendo la libertà e il sogno di vincere le Olimpiadi. Sola, intraprende il Viaggio di ottomila chilometri, l'odissea dei migranti dall'Etiopia al Sudan e, attraverso il Sahara, alla Libia, per arrivare via mare in Italia. Il romanzo dà voce ai pensieri e ai sogni di Samia e racconta dal punto di vista della giovane protagonista le speranze, i sogni, le difficoltà di vivere, di essere donna e atleta in un Paese devastato dalla povertà, dalla guerra civile, dal terrorismo di Al-Shabaab.  Video (intervista a Catozzella sul libro; durata: 6.33).
  7. Aeham Ahmad, Il pianista di Yarmouk, La nave di Teseo, 2018
    Un giovane suona il pianoforte in mezzo a una strada bombardata. Suona per i suoi vicini, soprattutto per i bambini, per distrarli dalle atrocità della guerra: un’immagine che ha fatto il giro del mondo diventando un simbolo della catastrofe in Siria, ma anche dell’inestinguibile volontà dell’uomo di opporsi in ogni modo alla distruzione. Il suono di quello strumento ha raggiunto e commosso milioni di persone nel mondo su YouTube. Ora Aeham Ahmad racconta la propria storia: l’infanzia in una Siria ancora in pace, l’inizio delle rivolte preludio di una guerra terribile, la fuga per la stessa via battuta da migliaia di disperati. Un lungo e pericoloso viaggio via terra, la drammatica traversata del Mediterraneo, le insidie della rotta balcanica. Fino alla nuova vita in Germania, dove ha realizzato il suo sogno di artista e si esibisce nelle più importanti sale concerti. Allora come oggi, è la musica a dargli conforto e infondergli coraggio. Video 1 (Ahmad racconta la sua storia a TV2000 nel 2017. Durata: 3.07)Video 2 (Ahmad suona tra le macerie di Yarmouk; Tv 2000, 2015. Durata: 2.15).
Le copertine e le descrizioni dei libri sono tratte dal sito della libreria ibs.


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