17 febbraio 2013

Il mondo salvato dai ragazzini

La storia contemporanea, anche quella più recente, offre molteplici esempi di ragazzi e ragazze speciali che sono diventati simboli dalla potente carica ispiratrice, piccoli leader di grandi battaglie, capaci di far sentire con forza la propria voce e di scuotere le coscienze. Le loro vite, le loro parole, il loro coraggio insegnano la voglia e la speranza di migliorare il mondo, il rifiuto dell'indifferenza e della rassegnazione.
Il post si ispira all'articolo Il mondo salvato dai bambini di Anais Ginori, "La Repubblica" 7 ottobre 2013
In ordine di apparizione:
  • Anne Frank. Un diario contro l'orrore nazista (Germania)
  • Luciana Romoli. Partigiana a 8 anni (Italia)
  • Samantha Smith. Una lettera per la fine della guerra fredda (U.S.A.)
  • Malala Yousafzai. La ragazza che ha sfidato i talebani (Pakistan-U.K.)
  • Iqbal Masih. Il piccolo sindacalista dei bambini sfruttati (Pakistan)
  • Emmanuel Jal. Da bambino soldato a rapper per la pace (Sud Sudan)
  • Sonita Alizadeh. La ribellione di una sposa bambina (Afghanistan-U.S.A.)
  • Nice Nailantei Leng'ete. Una bambina Masai contro un rito crudele (Kenya)
  • Hilal Hamidi. Da bambino kamikaze a pasticciere (Afghanistan-Italia)
  • Rita Atria. La siciliana ribelle, la "picciridda" di Borsellino (Italia)
  • Olga Misik. La ragazza con la Costituzione in mano (Russia)
  • Beatrice Vio. Medaglia d'oro in carrozzina (Italia)
  • Greta Thunberg. La paladina dell'ambiente più famosa al mondo (Svezia)
Un diario contro l'orrore nazista
(Germania)
Anne Frank (Germania, 1929-1945): all'età di 13 anni, Anne, una bambina tedesca ebrea, a causa della persecuzione razziale nazista, è costretta a fuggire ad Amsterdam e a nascondersi insieme alla famiglia in una soffitta. Nei pochi metri quadrati dell'"alloggio segreto" nascono le pagine del celebre Diario dove Anne, dal 15 giugno 1942 al 1 agosto 1944, trascrive le sue emozioni, le sue paure, i suoi sogni, le sue speranze. Anne muore a 15 anni nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, ma quelle pagine, scampate al saccheggio del nascondiglio, continuano a vibrare della sua intelligente vitalità, del suo sorprendente ottimismo, della sua fiduciosa serenità, e a tenere sveglie le nostre coscienze. "Le pagine lasciateci da quella giovinetta straordinaria ebbero un peso enorme nella coscienza collettiva della società tedesca del dopoguerra. Il Diario fu un po' la vera catarsi di noi tedeschi del dopoguerra. Da quelle pagine la Germania postbellica imparò a essere un Paese tollerante" (Joachim Fest, storico e giornalista tedesco, 2004)

In occasione del 90° anniversario della nascita di Anne, il 13 giugno 2019, la Rai le ha dedicato uno speciale intitolato "Il diario di Anna" (durata 1.59.35), in cui le vicende del famoso diario rivivono attraverso ricostruzioni storiche, spezzoni di film, la testimonianza della senatrice a vita Liliana Segre e il racconto del conduttore, il giornalista Corrado Augias in uno studio virtuale che riproduce gli ambienti dell'alloggio segreto. Clicca sul link se vuoi vederlo: https://www.raiplay.it/video/2019/06/Il-diario-di-Anna-cc10a44a-de23-4555-bd2c-61561e0a4e7e.html
Partigiana a 8 anni, staffetta a 13
(Italia)

Luciana Romoli, nata a Roma il 14 dicembre 1930, nome di battaglia "Luce", è stata una delle tante giovanissime staffette partigiane protagoniste della Resistenza italiana contro il nazifascismo.
"La mia Resistenza iniziò a otto anni. E la prima volta che mi ribellai fu per aiutare Debora, la mia compagna di banco ebrea. Era il 1938, avevano appena promulgato le leggi razziali. Quella mattina, a scuola, la nostra insegnante non c'era e arrivò una supplente. Si presentò con la divisa fascista e per prima cosa ci chiese il saluto al Duce. Dovevamo gridare: "Per Benito Mussolini eia eia alalà". E noi figli di antifascisti rispondemmo invece: "Per Benito Mussolini che lo possino ammazzà". La maestra, per fortuna, non se ne accorse. Poi iniziò a fare l'appello. Quando toccò a Debora Zarfati, che era già stata schedata come ebrea, l'insegnante disse: "Tu rimani in piedi". Poi la prese, la strattonò, la portò alla finestra e le legò le lunghe trecce alla corda con cui si tirava la tenda. Legò Debora con i suoi stessi capelli. Noi bambini (eravamo in trentasette) guardammo la scena attoniti, ma decidemmo di reagire. Prima circondammo la maestra spintonandola, poi prendemmo la cattedra, la spostammo sotto la finestra dov'era legata Debora, e le sciogliemmo i capelli liberandola. Ma la cosa non finì lì. Mi venne un'idea, il mio primo atto politico. Dissi ai miei compagni di scuola di far girare la voce: appuntamento alle sei del pomeriggio a casa mia. L'esempio, non lo nego, veniva dalla mia famiglia dove erano tutti antifascisti. Così pensai di raccontare quel che era successo a scuola in un volantino da distribuire a più persone possibili. Mi feci aiutare da mio padre a scrivere la storia di Debora e mio zio tipografo me la stampò. In aula non mi videro più: ero stata espulsa, come si diceva allora, "da tutte le scuole del Regno". Tra i compagni si scatenò una gara di solidarietà, tutti mi portavano i compiti; io cercavo comunque di tenermi al passo, ma non era facile (in realtà la licenza elementare l'ho presa a sedici anni, il diploma di ragioneria  a trenta, e a quarantacinque anni mi sono laureata in biologia). Purtroppo tutto questo a Debora non servì. Il suo ricordo è riaffiorato e mi ha tormentato a lungo nel corso degli anni. Finché mio marito mi ha spinto a cercare di capire qual era stato il suo destino. E purtroppo l'ho scoperto. Fu catturata il 16 ottobre 1943 durante il terribile rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma. Lei, il padre Guglielmo, la madre Emma e i fratellini Giuseppe, Italia e Marco (il più piccolo aveva solo dieci anni) condivisero il destino di altre 1024 persone: salirono sul convoglio numero 2, arrivarono ad Auschwitz il 23 ottobre e non sopravvissero alla Shoah. 
Quello che feci dopo lo feci anche per lei. Divenni staffetta delle Brigate Garibaldi
. Il mio nome di battaglia era Luce, quello di mia sorella Anna. Avevamo biciclette di colore diverso e borse di forma diversa: la mia era rettangolare, la sua ovale. Così, se ci avessero visto, saremmo sembrate ancora di più due amiche trovatesi per caso. Rispettavamo le regole della clandestinità che ci avevano insegnato: io non sapevo cosa portava lei, lei non sapeva cosa portavo io. Io andavo a prendere i chiodi a tre o quattro punte per i sabotaggi da un partigiano di Trastevere [i chiodi erano sparsi lungo le strade per bucare i copertoni delle camionette tedesche]. Mia sorella aveva quindici anni ed era molto coraggiosa. Scampanellava ai tedeschi facendo segno di scansarsi. Un giorno i tedeschi la fermano: "Alt! Signorina, cosa avere in questa borsa?". E lei tutta sorridente: "Bombe a mano!". "Passare, passare." Io ero dietro e non avevo la forza di pedalare. Così quando l'ho raggiunta mi ha preso a schiaffi: "Ma sei matta? Ci salviamo per miracolo e tu arrivi lenta lenta?". "Ma tu gli hai detto che portavi le bombe a mano." "E certo, se guardavano le trovavano!" Un bluff che ci salvò la vita. Abbiamo avuto paura, ma siamo state anche felici. Un giorno, per esempio, organizzammo una grande manifestazione in piazza San Pietro, sotto Pasqua. C'erano uomini, ragazzi, ma soprattutto donne, per la maggior parte casalinghe. Ricordo come una delle cose più belle della mia vita: i tedeschi con quei mitra che potevano forse sparare, ma ormai non sarebbe servito più a nulla. Perché noi non eravamo armati, è vero, ma eravamo convinti, e la convinzione sa essere l'arma più feroce: volevamo la Costituzione, volevamo la solidarietà, la giustizia e la libertà. Per questo oggi sono arrabbiata con quei ragazzi che pensano che tutto sia dovuto, tutto sia scontato. Glielo dico sempre: bisogna combattere, discutere, confrontarsi. Io non ho mai smesso di farlo. "

La testimonianza di Luciana Romoli è tratta dal libro a cura di Gad Lerner e Laura Gnocchi Noi partigiani. Memoriale della Resistenza italiana, Feltrinelli, 2020, pp. 155-160 (Ho fatto la Resistenza pensando a Debora) che raccoglie le interviste di partigiane e partigiani ancora in vita in tutta Italia, all'epoca dei fatti adolescenti o addirittura bambini. Se vuoi ascoltare la storia di Luciana dalla sua voce clicca sul link: https://www.noipartigiani.it/?s=luciana+romoli (durata: 13 minuti circa).

Le ragazzine e i ragazzini che fecero la Resistenza senz'armi
Furono moltissimi i giovani, spesso minori, maschi e femmine, che, nonostante l'età, scelsero di aiutare i partigiani durante la Resistenza italiana. Il ruolo più noto è quello di staffettaIl contributo delle donne, in particolare, fu fondamentale e decisivo per la vittoria dei combattenti armati, eppure non fu subito riconosciuto o è stato a lungo sottovalutato. Nell'immediato dopoguerra infatti, le donne furono escluse dai primi elenchi di "partigiani combattenti" e di "patrioti". Anche se molte non usarono le armi, furono indispensabili all'organizzazione, e rischiarono come e più degli uomini di essere arrestate, torturate, fucilate, deportate. Per lo più in bicicletta, il mezzo di trasporto più popolare e semplice a disposizione, che si rivelò un'arma efficacissima contro il nazifascismo, si occupavano di trasportare messaggi, comunicazioni, armi, munizioni, esplosivo usato per far saltare ponti o binari ferroviari, stampa clandestina, vestiti, cibo, provviste, medicine. Consentivano i collegamenti tra le formazioni partigiane e la trasmissione di ordini, istruzioni e informazioni. Alcune offrirono ospitalità ai clandestini, nascosero militari e prigionieri in fuga, organizzarono o parteciparono a scioperi, assediarono le caserme dove venivano reclusi i disertori
Alcune bambine e bambini raggiungevano i binari come il 21 a Milano, per portare acqua agli ebrei rinchiusi nei carri merci diretti ad Auschwitz o per raccogliere i bigliettini buttati dai deportati dalle fessure dei carri e portarli alle loro famiglie.

Il documentario "Le ragazze del '43 e la bicicletta", realizzato nel 2018, racconta, attraverso immagini e le testimonianze di Marisa Rodano, Lidia Menapace, Luciana Romoli e Tina Costa, il contributo decisivo delle donne alla Resistenza, in particolare dei Gruppi di difesa della donna e delle staffette partigiane: https://youtu.be/yeL0NtPNCMQ (durata: 30 minuti)

 
Una lettera per la fine della guerra fredda:

la più giovane ambasciatrice di pace

(U.S.A.)
In piena guerra fredda, nel novembre 1982, all'età di 10 anni, Samantha Reed Smith (USA, 1972-1985) divenne famosa perché, spaventata dalla minaccia di una catastrofica guerra nucleare, amplificata dai media americani, volle scrivere una lettera al segretario del Partito Comunista Sovietico Jurij Andropov, appena eletto, per esprimergli le sue preoccupazioni su un possibile conflitto con gli Stati Uniti. «Se la gente ha così tanta paura di lui,» chiese a sua madre, «perché nessuno gli scrive una lettera per chiedergli se vuole o no una guerra?» «Perché non tu?» fu la risposta di sua madre. E così la bambina scrisse la sua lettera: "Caro Sig. Andropov, mi chiamo Samantha Smith. E ho dieci anni. Congratulazioni per il vostro nuovo lavoro. Mi sono preoccupata a proposito di una possibile guerra nucleare tra Russia e Stati Uniti. State per votare per avere una guerra o no? Se non volete, ditemi per favore come farete per evitare che ci sia una guerra. A questa domanda potete non rispondere, ma mi piacerebbe sapere perché volete conquistare il mondo o almeno il nostro Paese. Dio ha creato il mondo per noi perché potessimo viverci insieme in pace, non per combatterci. Sinceramente, Samantha Smith". Alla breve lettera, che fu pubblicata sul giornale sovietico Pravda, il leader sovietico rispose il 26 aprile 1983 rassicurando la ragazza e invitandola a visitare l'Unione Sovietica. Ecco alcuni stralci:
"Cara Samantha, mi sembra, da ciò che posso leggere nella tua lettera, che tu sia una ragazzina coraggiosa ed onesta. La tua domanda è la più importante tra tutte quelle che ogni uomo pensante possa mai porre. Ti risponderò con assoluta serietà ed onestà. Sì, Samantha, noi nell'Unione Sovietica stiamo tentando di fare tutto il possibile perché non ci siano guerre sulla Terra. Il popolo sovietico sa quale cosa terribile possa essere una guerra. Quarantadue anni fa, la Germania nazista, che mirava alla supremazia mondiale, attaccò il nostro Paese, bruciò e distrusse molte migliaia delle nostre città e villaggi, uccise milioni di uomini sovietici, donne e bambini. In questa guerra, che terminò con la nostra vittoria, noi eravamo alleati con gli Stati Uniti: insieme lottammo per la liberazione di molte persone dagli invasori nazisti. In America e nel nostro Paese ci sono armi nucleari, armi terribili che possono uccidere milioni di persone in un istante. Ma vogliamo che non vengano mai usate. Noi vogliamo la pace per noi stessi e per tutti i popoli del pianeta. Per i nostri figli e per te, Samantha."
Samantha accettò l'invito con entusiasmo, trascorse due settimane in Unione Sovietica, guadagnandosi l'affetto e l'amicizia di molti e acquistando un'ampia fama tra i cittadini sovietici. La vicenda attirò sempre di più l'attenzione dei media sia statunitensi sia sovietici: la ragazza divenne la più giovane e popolare pacifista, impegnata in viaggi in tutto il mondo. Samantha visitò il Giappone, dove in un discorso suggerì ai leader sovietici e americani di scambiarsi le figlie per due settimane all'anno, perché così «non desidererebbero sganciare una bomba sul Paese che ospita la propria figlia».
Purtroppo la sua vita si concluse prematuramente il 25 agosto 1985 a causa di un incidente aereo. La sua morte prematura ebbe una vasta risonanza e suscitò un sincero cordoglio. In URSS le fu dedicato un asteroide scoperto nel 1987 da un'astronoma sovietica, che fu battezzato "3147 Samantha". Negli USA, lo Stato del Maine dov'era nata le dedicò una statua nei pressi del Maine State Museum di August che la ritrae mentre libera una colomba, con ai piedi un cucciolo d'orso, animale simbolo sia del Maine che della Russia.
Intervista televisiva del 1983, in cui Samantha racconta la storia della sua corrispondenza speciale con Andropov. 
Durata del video: circa 3 minuti (in lingua inglese)

La ragazza che ha sfidato i talebani
(Pakistan)
Malala Yousafzai è una giovane donna pakistana nata a Mingora nel 1997; è diventata famosa a soli 11 anni grazie ad un blog da lei curato sul sito della Bbc, nel quale denunciava il regime di terrore instaurato dai talebani in Pakistan, la segregazione delle donne, la distruzione delle scuole per ragazze e difendeva il diritto allo studio. Il 9 ottobre 2012, all'età di 15 anni, è stata gravemente ferita alla testa da un colpo sparato da un talebano sul pullman scolastico che la stava riportando a casa. Sopravvissuta all'attentato, è stata curata in Gran Bretagna, dove tuttora risiede con la sua famiglia e continua il suo impegno in favore del diritto all'istruzione. Il 12 luglio 2013, giorno del suo sedicesimo compleanno, parlando all'Assemblea Generale dell'ONU, Malala ha consegnato al mondo un messaggio di coraggio e di pace, un appello per l'istruzione obbligatoria e universale di bambini e bambine: "[...] Non odio nessuno. Sono qui per parlare per il diritto all’istruzione. Voglio che anche i figli e le figlie dei talebani siano istruiti e se mi trovassi con una pistola in mano di fronte al talebano che mi ha sparato non lo ucciderei. Questa è la compassione che ho imparato da Maometto, da Gesù Cristo e da Buddha, da Martin Luther King, da Nelson Mandela." Proprio in quella occasione Malala ha pronunciato la celebre frase "One child, one teacher, one book, one pen can change the world."
In riconoscimento del suo coraggio e del suo impegno in favore dell'istruzione come arma contro il terrore oscurantista, nel 2014 le è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace. Malala è stata la persona più giovane e la prima pakistana a ricevere questo premio. Il 12 luglio 2015 ha festeggiato il suo 18esimo compleanno inaugurando una scuola femminile per le giovani profughe siriane nella valle di Bekaa, in Libano, sul confine siriano: la "Malala Yousafzai All-Girls School" ospiterà circa 200 ragazze tra i 14 e i 18 anni in fuga dalla Siria dilaniata dalla guerra che vivono nei campi profughi del Libano. Nel giugno 2020 si è laureata a Oxford.
La storia di Malala è raccontata in un libro pubblicato in Italia nel 2013 con il titolo Io sono Malala e in un documentario del 2015 realizzato dal regista David Guggenheim dal titolo He named me Malala.
Di seguito puoi visualizzare alcuni video per ascoltare le parole di Malala.

Discorso per la consegna del premio Nobel per la Pace, Oslo 10/12/2014
(Durata: 5.30, traduzione in italiano)

 Il piccolo sindacalista dei bambini sfruttati
(Pakistan)
Iqbal Masih (Pakistan, 1983-1995): nato in Pakistan nel 1983, all'età di 4 anni viene venduto dai genitori, indebitati, a un fabbricante di tappeti per 12 dollari; tenta di fuggire e da allora, per 6 anni, viene tenuto legato al telaio dai suoi sfruttatori, che lo picchiano e insultano, obbligandolo a lavorare per 12-16 ore al giorno in condizioni di semi-schiavitù per una paga giornaliera di una rupia (circa 25 centesimi di euro)Ma Iqbal ha un'intelligenza vivace, impara a leggere e a scrivere di nascosto, da solo; a 11 anni riesce a fuggire insieme ad altri bambini e, grazie all'aiuto del leader del Fronte di Liberazione del Lavoro forzato, diventa consapevole dei suoi diritti, inizia a parlare e a denunciare gli abusi e le sofferenze subite. La sua denuncia finisce sui giornali locali e Iqbal si rifiuta di tornare dal suo "padrone". Da quel momento comincia a tenere conferenze sullo sfruttamento del lavoro minorile anche in altri Paesi, studia e sogna di diventare un avvocato per difendere i più deboli. Nel 1994 afferma: "Non ho paura del mio padrone; ora è lui che ha paura di me". Infatti la sua vicenda ha un'eco inarrestabile a livello internazionale, finisce sui giornali e sui telegiornali di tutto il mondo, tanto da costringere le autorità pakistane a chiudere molte fabbriche di tappeti che sfruttano il lavoro dei minori
Per chi si arricchisce grazie al lavoro dei bambini, Iqbal diventa un personaggio scomodo, comincia a dare fastidio e a minacciare gli interessi di troppe persone: la sua lotta e la sua denuncia danneggiano non solo i fabbricanti di tappeti ma anche la mafia locale che ricava profitti dallo sfruttamento dei bambini. Così il 16 aprile 1995, a soli 12 anni,  mentre pedala sulla sua bicicletta nel suo paese, Iqbal viene ucciso da un colpo di fucile, in circostanze che restano tuttora oscure. Iqbal non è riuscito a realizzare il suo sogno di diventare avvocato, ma era un bambino speciale, a cui è stata rubata prima l'infanzia, poi la vita. Il suo volto tenero, i suoi occhi intensi e dolci sono diventati il simbolo della lotta allo sfruttamento del lavoro minorile e la data della sua morte è diventata il Giorno della Lotta Internazionale contro la Schiavitù Infantile.
 "Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite." (Iqbal, 1994)
La vicenda di Iqbal ha ispirato il film TV Iqbal (1998) di C. Th Torrini e il lungometraggio animato Iqbal: bambini senza paura (2015), liberamente basato sul romanzo di Francesco D'Adamo Storia di Iqbal (2001).
Durata del video: 0.57 (in lingua inglese)

La notizia della tragica morte di Iqbal, letta casualmente su un giornale, impressionò profondamente un altro ragazzino dodicenne, il canadese Craig Kielburger (Thornhill, 17 dicembre 1982). Craig avvertì una profonda connessione con il suo coetaneo pakistano e un urgente bisogno di fare qualcosa; convinse così il fratello Marc e altri ragazzi a fondare "Free the Children", oggi "We Charity". 
https://www.wecharity.org/about-we-charity/our-story/

Il lavoro minorile 
Si calcola che siano almeno 264 milioni in tutto il mondo, i minori, di età compresa tra i 5 ed i 17 anni, che sono impiegati in qualche attività lavorativa e di questi 168 milioni lavorano a tempo pieno. La cifra è difficilmente valutabile perché si tratta molto spesso di lavoro sommerso, al di fuori dell’economia ufficiale. Il lavoro minorile non è solo una realtà dei Paesi del Sud del Mondo, in cui gli strati deboli della popolazione sono costretti a pagare lo scotto più alto per uno sviluppo forzato, ma è anche una realtà dei Paesi industrializzati in cui si vanno estendendo le sacche di povertà ed emarginazione. Lo sfruttamento del lavoro minorile ha serie conseguenze sulla salute e sullo sviluppo dei bambini e degli adolescenti ed effetti psicologici che ne possono segnare la vita. La loro vulnerabilità li pone a rischio di incidenti e di malattie professionali più di un adulto che faccia lo stesso lavoro. Lo sfruttamento del lavoro minorile può avere anche conseguenze a lungo termine: infatti alcuni lavori, come quello a cui era obbligato Iqbal, costringono bambini e ragazzi a pose innaturali protratte nel tempo o a prolungati sforzi fisici non adatti alla loro giovane età che interferiscono con un corretto sviluppo fisico. Non di rado le bambine e i bambini sono sottoposti a maltrattamenti sia fisici che psicologici.(Dati Amnesty International, 2014).

Da bambino soldato a rapper per la pace
(Sud Sudan)
Emmanuel Jal (Sud Sudan, 1980) a 8 anni combatteva con un mitragliatore Ak47 nei campi del Sudan. Adesso è una stella dell'hip-hop. Quando il dramma della guerra civile sconvolge il Sudan, la vita del piccolo Emmanuel cambia improvvisamente: suo padre diventa un leader dell'Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese, la madre muore tragicamente durante un attacco ed Emmanuel a soli 7 anni viene arruolato e addestrato alla guerra. Dopo anni di brutali combattimenti e orrori, a 11 anni riesce a scappare insieme ad altri bambini e a raggiungere Waat, una città del Sudan meridionale, dove a 13 anni ha la fortuna di incontrare Emma McCune, una giovane volontaria inglese che aiuta gli ex bambini soldato. Grazie ad Emma, Emmanuel raggiunge il Kenya dove inizia a frequentare la scuola e proprio nel coro di una scuola di Nairobi scopre la sua vocazione per la musica. "Quando avevo 5 anni, a causa della guerra, ho visto svanire davanti ai miei occhi tutto il mio mondo. Il mio villaggio fu bruciato, mia madre morì, i miei fratelli e le mie sorelle scomparvero e io e mio padre fummo costretti a fuggire. Sono cresciuto nella violenza e a 8 anni sono diventato un bambino soldatoNon  capivo quale fosse il motivo per cui si stava combattendo quella guerra nel mio Paese. Ma quando andai al campo di addestramento mi insegnarono a odiare gli arabi. L’addestramento non fu facile e la forza che mi spingeva ad andare avanti era solo il desiderio di vendetta per la mia famiglia e per il mio villaggio. Ora ho capito qual è la verità. Ciò che ci stava davvero uccidendo non erano gli arabi ma chi usa la religione per ottenere ciò che vuole: il petrolio, i diamanti, l’oro e la nostra terra. Ho capito che non era giusto continuare a odiare. Così ho deciso di perdonare. Adesso canto e faccio musica con gli arabi. Ballo con loro." [Emmanuel fa riferimento alla seconda guerra civile (1983-2005) tra il Nord del Sudan, arabo e musulmano, e il Sud a maggioranza dinka e nuer e cristiano-animista; allude anche alle altre cause del conflitto, oltre a quelle etnico-religiose, ossia le risorse minerarie della parte meridionale del Paese].
Emmanuel è diventato portavoce di campagne umanitarie e ha creato la fondazione Gua Africa (Gua significa "pace" in Nuer, una lingua tribale del Sud Sudan) per aiutare bambini e bambini ad andare a scuola: "Ora per me la cosa più importante è combattere per l’educazione di bambine e bambini. L’educazione illumina il cervello, ti dà tantissime possibilità e ti permette di sopravvivere. L’educazione permetterà al mio Paese di poter contare su persone capaci di cambiare le cose. Ora siamo pieni di vecchi uomini che creano la guerra. Ma se investi nell’educazione, saremo in grado di cambiare l’Africa".
 Emmanuel ha raccontato la sua storia nel libro Figlio della guerra, pubblicato in Italia nel 2009.
"Sono un rapper un po' strano. Nelle mie canzoni non parlo né di sesso né di soldi. C'è bisogno d'altro per aiutare il mio Paese. La gente ha bisogno di speranza. Il Sudan è pieno di poveri e di rifugiati. La mia storia è terrificante, io sono un sopravvissuto. Da anni mi chiedo: che cosa posso fare, io? La risposta è una sola: cantare l'hip hop, una musica abbastanza forte da influenzare i giovani. Con i testi giusti, posso dire loro di credere nel futuro". 
Il suo sito ufficiale: https://www.emmanueljal.com/. Guarda il video ufficiale della canzone We want peace: 


Durata del video: 3.50 (in lingua inglese con sottotitoli in inglese)


I bambini soldato
Nonostante alcuni progressi e gli sforzi della comunità internazionale di porre fine all’utilizzo delle bambine e dei bambini in guerra, decine di minori sono ancora arruolati negli eserciti regolari o nelle file di qualche gruppo armato. Non si conosce il loro numero esatto, ma si stima siano circa 250.000, in varie zone del mondo, soprattutto in Africa centrale e in Medio-Oriente. La maggior parte di questi soldati bambini ha tra i 14 e i 18 anni, ma numerosi sono quelli di età inferiore (10 - 13 anni) e vi sono testimonianze di reclutamenti di bambini ancora più giovani. Le bambine e i bambini soldato sono forzati a compiere un’ampia gamma di compitipartecipare ai combattimenti, posizionare mine ed esplosivi; fare ricognizioni, spiare, essere utilizzati come esche, corrieri o guardie; addestrarsi, fare esercitazioni; essere impiegati come portatori, nei lavori domestici o cucinare; le bambine, che costituiscono il 30% dei bambini soldato, sono utilizzate o arruolate anche come schiave sessuali dei combattenti. 
All'origine di questo fenomeno ci sono varie cause: le armi leggere sono facilmente trasportabili e utilizzabili anche da bambini, i ragazzi si assoggettano alla disciplina militare più facilmente degli adulti, non pretendono paghe e difficilmente disertano. Le conseguenze sono molteplici: oltre alle malattie fisiche dovute ai rigori della vita militare e ai maltrattamenti subiti, tutti i bambini soldato soffrono di ferite psicologiche difficili da rimarginare. (Fonte: Amnesty International, 2014)

La ribellione di una sposa bambina
(Afghanistan-U.S.A.)  
Nata nel 1996 in Afghanistan, Sonita Alizadeh, a causa della guerra, è cresciuta in un campo profughi a Teheran, in Iran, insieme al fratello maggiore. Quando ha compiuto 10 anni la madre è andata a trovarla dall'Afghanistan per comunicarle che un uomo voleva comprarla in moglie per la cifra di 9.000 dollari e che sarebbe dovuta ripartire con lei. Sonita rifiuta il matrimonio, resta in Iran, dove studia di nascosto, frequentando la scuola di una ONG, e impara a scrivere. Dopo poco compone la sua prima canzone rap, Dokhtar Forooshi (Figlie in vendita). Nonostante comporre musica sia illegale per le donne in Iran, è così che la ragazza sfoga il suo dolore, la sua rabbia. Il video, realizzato e diffuso su Youtube grazie a una regista incontrata nella scuola della ONG, diventa virale e fa conoscere Sonita. L'organizzazione Strongheart Group la contatta e le procura un visto per andare negli USA, dove Sonita vive tuttora da sola e continua a studiare musica. È la più giovane rapper (donna) afghana.
"Mi sono sentita morire, quando mia madre mi ha detto che sarei stata venduta per permettere a mio fratello di comprare una moglie, il mio cuore si è fermato, non riuscivo a respirare né a parlare. Le mie mani tremavano. Ho capito che, in confronto a lui, io non avevo nessun valore. Era molto difficile immaginare di sposare uno sconosciuto, pensare che mi avrebbe toccata era più doloroso di una frustata. Così ho deciso di fare qualcosa per far sentire la mia voce e affermare la mia esistenza. Ho scritto Dokhtar Forooshi non solo per me ma anche per le mie amiche che stavano vivendo la stessa situazione. Sono cresciuta in un paese dove la mia personalità è sempre stata torturata a causa del mio genere, mi sentivo una donna invisibile e ho scritto la canzone per dire “Io esisto, ho una voce, sono proprio come voi”. 
Sonita non prova rancore per la sua famiglia: «Mio padre è morto, era molto più anziano di mia madre, anche lei era una sposa bambina. È facile pensare che i genitori costringano le ragazze al matrimonio perché non le amano abbastanza ma io credo che questa non sia la verità. Anche in paesi dove le bambine vengono vendute, l’amore all’interno della famiglia è forte. Ma anche la povertà lo è allo stesso modo, così come la tradizione. So che mia madre ha cercato di vendermi ma so anche che mi ha amata molto. È stata obbligata a chiudere i suoi occhi all’amore a causa della tradizione e della povertà. Non conosceva un’altra strada".
Le citazioni delle parole di Sonita sono tratte dall'intervista pubblicata dalla rivista "VanityFair" il 22 ottobre 2015.
Guarda il video di Brides for sale (sottotitoli in inglese; clicca sul link per la traduzione in italiano di Alice Bellesi):

Le spose bambine e i matrimoni forzati
Il fenomeno delle spose bambine all'inizio del secolo è stato al centro dell'attenzione mediatica e della comunità internazionale grazie alla storia di Nojoud Ali al-Ahdel: nata in Yemen nel 1998, nel 2007, a soli 9 anni, fu costretta dal padre a sposare un trentenne mai visto prima. Sottoposta a ripetuta violenza fisica e sessuale, dopo due mesi la bambina ebbe la forza e il coraggio di scappare e di rivolgersi a un tribunale della capitale Sana'a. Grazie all’avvocato Shaza Nasser, che l’ha rappresentata gratuitamente, ottenne il divorzio all'età di 10 anni, in base all'accusa di violenza sessualeLa vicenda ebbe un'enorme risonanza mediatica che accese i riflettori sulla pratica secolare dei matrimoni forzati e precoci, considerata da molti in Yemen ancora una tradizione inviolabile. 
In 
Yemen, dove il 52% delle donne si sposa a un'età media di circa 14 anni (che in molte regioni scende sotto i 10), in altri Paesi asiatici (India in testa, Bangladesh, Afghanistan, Siria, Iran) e africani (Burkina Faso) la pratica dei matrimoni precoci forzati è molto diffusa. Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), 13.5 milioni di ragazze ogni anno nel mondo sono costrette a sposarsi prima dei 18 anni con uomini molto più vecchi di loro: 37 mila bambine ogni giorno, alle quali, di fatto, viene negata l’infanzia. Isolate, tagliate fuori da famiglia e amicizie e da qualsiasi altra forma di sostegno, perdono la libertà e sono sottoposte a violenze e abusi. Molte di loro rimangono incinte immediatamente o poco dopo il matrimonio, quando sono ancora delle bambine. Queste forme di violenza sono parte di una cultura globale che nega alle donne pari opportunità e pari diritti e che tende a esercitare possesso e appropriazione del loro corpo. 
La differenza di età tra una ragazza e il suo futuro coniuge può essere enorme, in alcuni casi tra i 30 e i 50 anni. Il matrimonio precoce ha un impatto negativo anche sulla salute delle bambine, per i problemi provocati dai parti e dalle gravidanze precoci.
La pratica dei matrimoni forzati è diffusa anche tra le comunità immigrate in altri Paesi, tra cui l'Italia. Le comunità presenti nel nostro Paese più a rischio sono quelle del sud est asiatico (Bangladesh, Pakistan, India, Sri Lanka). Ne sono vittime anche le seconde generazioni, per cui ragazze o ragazzi, dopo aver frequentato la scuola in Italia, vengono rimandati in patria a sposare uno sconosciuto o una sconosciuta.
Una bambina Masai contro un rito crudele
(Kenya)
Immaginatevi una bimba africana di 8 anni, orfana dei genitori. Va a scuola, gioca con le amiche, sente le terribili storie che riguardano un appuntamento giudicato inesorabile dalla sua comunità: la mutilazione genitale. Un evento cruento, brutale, che segna il passaggio all'età adulta. Nice - questo il nome della bimba - scappa dal villaggio, dalla casa della zia che la ospita, si nasconde tra i cespugli con la sorella. Poi va dal nonno e gli punta dritta i suoi occhi neri e profondi: "Non voglio essere tagliata. Io voglio studiare, non mi interessa il matrimonio". Nice Nailantei Leng'ete, piccola guerriera Masai, eversiva, coraggiosa, riesce a spuntarla (ma non a salvare la sorella).  (Tratto da Africa, la storia di Nice: guerriera masai contro la mutilazione genitale, di Alessandra Longo, in "La Repubblica.it", 26 ottobre 2016). 
"Ci siamo nascoste su un albero, tenendoci strette strette per il panico: era buio pesto e di notte leoni, iene, sciacalli sono padroni della savana. In più gli zii furenti ci stavano cercando. Quell'anno toccava a me e a Soila essere tagliate, insieme ad altre bambine. Ma conoscevamo l'atrocità dell'intervento e le compagne di scuola che non erano Masai e non avevano questa usanza ridevano di noi. Così siamo fuggite. Prima sull'albero, poi da sole nella savana, poi da una zia affettuosa... Ci hanno scovato, però. E bastonato. E messe al bando. Per riprovare a circonciderci nella cerimonia di qualche tempo dopo. Soila si è arresa, avviandosi a una vita miserevole con un marito anziano e violento. Io sono scappata di nuovo. Ero orfana di entrambi i genitori, dovevo difendermi da sola: "Ho 8 anni: non voglio smettere di studiare per sposarmi. Rinviamo, nonno, ti prego, se no scappo per sempre". Grande saggio, il nonno di rinvii me ne ha concessi tanti, un anno dopo l'altro. Ma sono diventata la vergogna del villaggio: ero maledetta, dicevano, le viscere mi sarebbero marcite nel ventre. Un incubo quel pensiero. Crescevo in totale solitudine". 
Nice non si è arresa ed è diventata la prima ragazza del villaggio a frequentare il liceo e a laurearsi. Oggi, ormai trentenne, grazie al suo impegno, continua a salvare migliaia di altre bambine dalle mutilazioni genitali femminili (dette Mgf), che in Africa sono praticate ancora in trenta Paesi (tra cui il Kenya, nonostante la legge lo proibisca dal 2011) e coinvolgono ogni anno due milioni di minorenni. Nice è diventata ambasciatrice dell'organizzazione Amref  ed è la prima donna ad aver ricevuto dagli anziani del suo villaggio il bastone nero, simbolo di potere. "Intendevo sradicare un'usanza secolare, marchio d'identità di un popolo, conferma della supremazia maschile: qui per l'uomo anche la poligamia è un vanto. Non avevo altra chance che convincere gli anziani. Ma una ragazza non può neppure rivolgere loro la parola, figurarsi discutere di genitali femminili. C'è voluto il colpo di fortuna: operatori di Amref sono passati di qui e, come unica adolescente che andava a scuola, mi hanno scelto per un corso sulla salute sessuale e riproduttiva, perché facessi da tramite con il villaggio. Ero timida, insicura: è nata una leonessa. Mi ci è voluto un anno per convincere i moran, i giovani pastori-guerrieri, ad accettare spose non circoncise, che almeno correvano meno rischi di morire di parto o d'essersi beccate l'Hiv con una lametta infetta. Ci sono voluti due anni per conquistare gli anziani con un argomento in più: una baby-moglie analfabeta vale 4-5 mucche, una donna che è andata a scuola 15-20". Nice è riuscita a raggiungere un duplice importante traguardo: non solo dal 2012 nel suo villaggio non si pratica più l'infibulazione ma è stato anche introdotto un rito di passaggio alternativo la cui cerimonia prevede non più la benedizione delle ragazze in quanto brave mogli e future madri ma la benedizione delle loro penne e dei loro libri come augurio per il loro futuro professionale. Proprio nel 2012 le mutilazioni femminili sono state messe al bando dall'Onu come violazione di diritti umani. In Italia e in UE la legge prevede il riconoscimento dello status di rifugiato a chi ha subito tale pratica o rischia di subirla in futuro.
(Le citazioni delle parole di Nice sono tratte dall'articolo di Antonella Barina, Non lamette ma libri. Nice ha vinto la battaglia, pubblicato sul "Venerdì di Repubblica" il 28 settembre 2018).
Nice racconta la sua storia:
                                       Video pubblicato da Amref  Italia nel 2016. Durata: 8:28
 
Da bambino Kamikaze a pasticciere
(Afghanistan-Italia)
Hilal Hamidi è nato a Nangarhar in Afghanistan nel 1996, lavora a Roma come pasticciere, ma il destino a cui è riuscito a sottrarsi da bambino era ben diverso e amaro. Il suo corpo ne reca ancora i segni indelebili. Hilal è arrivato in Italia nel 2011, da clandestino, nascosto sotto un tir su una nave da Igoumenitsa a Bari, dopo un lungo viaggio di tre anni attraverso Iran, Turchia e Grecia. Hilal è fuggito da un destino di kamikaze. Dopo la morte del padre, sminatore per conto degli americani, rapito e poi ucciso dai talebani nel 2009 per aver collaborato con il "nemico", Hilal a 11 anni si ritrova solo ed è costretto a scappare: "Ero piccolo ma già un potenziale nemico. Crescendo avrei potuto vendicare la morte di mio padre. Dovevo nascondermi. Abbracciai mia sorella e mi rifugiai in una moschea". Ma i talebani lo rapiscono e lo addestrano per sei mesi. "Ci insegnavano a sparare e a ripetere mille volte al giorno io morirò per Allah'. Ci facevano fare le prove con la cintura esplosiva. Bastava premere un pulsante e saremmo andati in paradiso". Ma Hilal si rifiuta e viene punito e torturato con l'olio bollente: "Non volevo uccidere altri musulmani. Mi rovesciarono addosso l'olio bollente. Un dolore oltre la sopportazione umana. Non ero più nulla. Avevano vinto loro".
Invece Hilal vince: "Portarono me e un altro bambino accanto a una base militare. Ci fecero nascondere in un buco, con le cinture esplosive. Era buio, ma c'erano le stelle. Il nostro carceriere andò a prendere dell'acqua. Era il momento. Ricordo di aver pensato che tanto dovevamo morire, potevamo ancora provare a fuggire". L'altro bambino muore durante la fuga, mentre attraversano un lago, Hilal si risveglia in una casa di campagna, salvato da un contadino di cui non saprà mai il nome, che per mesi gli medica le ustioni e lo aiuta a continuare la fuga verso l'Iran. Approdato in Italia, dopo essersi rifugiato, insieme a tanti altri bambini profughi, nella tendopoli della stazione di Roma Ostiense, viene accolto in varie case famiglia, fino a quando, grazie a una cooperativa, riesce a studiare e a seguire un corso per pasticciere.
"Ho appena compiuto otto anni d'Italia e di libertà. Oggi sembra che tutti abbiano dimenticato l'Afghanistan. Invece la guerra non è mai finita, i talebani continuano a sequestrare bambini e li obbligano a farsi esplodere. Per Allah, ti dicono. Ma anche a 11 anni, quando mi rapirono nella moschea dove mi ero nascosto, sapevo bene che nulla di tutto questo è scritto nel Corano".
Le citazioni delle parole di Hilal sono tratte dall'articolo di Maria Novella De Luca, Il paradiso può attendere, preferisco dì fare i dolci, pubblicato sul "Venerdì di Repubblica" del 28 giugno 2019 .
Ascolta il racconto dalla voce di Hilal cliccando sui link: 
La storia di Hilal Hamidi rapito dai talebani  ("Tv2000" 2016, durata 2.27)
Hilal Hamidi da bimbo kamikaze a pasticcere ("La Vita in diretta", RAI 1 2016, durata 10.58)

I migranti minori non accompagnati
Hilal è stato uno dei tanti minori in fuga dai Paesi d'origine che arrivano in Europa da soli, senza un adulto di riferimento al loro fianco. I minori non accompagnati sbarcati in Italia sono prevalentemente maschi di 16-17 anni e sono tra i migranti più vulnerabili, più esposti a rischi di sfruttamento e abuso, come la tratta e il traffico di esseri umani. 

In Italia, a causa della lentezza delle procedure e dell'inasprimento dei controlli alla frontiera, molti scappano dai centri di accoglienza nella speranza di riuscire a raggiungere parenti o amici nei Paesi del Nord Europa. Se la famiglia non può spedire il denaro necessario, molti diventato facili vittime del lavoro in nero o delle 
organizzazioni criminali che li sfruttano per spaccio di droga e prostituzione. 
Il bambino profugo più noto in Italia è Enaiatollah Akbari, anche lui afghano, fuggito dal suo Paese a soli 10 anni e giunto in Italia dopo un'odissea lunga 5 anni. Grazie a lui e al libro-intervista che racconta la sua storia, Nel mare ci sono i coccodrilli (2010), scritto con l'aiuto del giornalista Fabio Geda mentre frequentava le superiori al serale e tradotto in 27 Paesii lettori hanno capito meglio l'odissea dei profughi, hanno scoperto ciò che accade prima dello sbarco sulle coste italiane e hanno conosciuto la realtà dei migranti minori non accompagnati.
La siciliana ribelle: la "picciridda" di Borsellino
(Italia)
Rita Atria (Partanna, 1974 - Roma, 1992): figlia di don Vito, un boss di quartiere appartenente a una cosca mafiosa del trapanese, dopo l'omicidio del padre nel 1985, Rita, che ha solo 11 anni, si lega sempre di più al fratello Nicola, ma anche Nicola è inserito nella mafia locale e anche lui nel 1991 viene ucciso in un regolamento di conti. La cognata di Rita (moglie di Nicola), Piera Aiello, decide di denunciare i killer del marito e di collaborare con la giustizia. Rita, che allora ha appena 17 anni, decide di seguire il suo esempio, nonostante la madre, Giovanna Cannova, sia fortemente contraria. Una mattina, anziché andare all'alberghiero a Sciacca, va in caserma, confusa, ma determinata a parlare, a denunciare l'omicidio del padre e del fratello. Grazie al rapporto di complicità e di confidenze con Nicola, che voleva coinvolgerla nel suo piano per vendicare il padre, Rita conosce tanti "segreti" sui responsabili dell'omicidio del padre, sulle gerarchie di potere a Partanna, sui codici mafiosi. Per entrambe le donne, soprattutto per la giovanissima Rita, è decisivo l'incontro con il giudice Paolo Borsellino, procuratore capo della procura Marsala, che la tratta con tenerezza, dolcezza e affetto, le infonde sicurezza, la sostiene, la protegge, la coccola, diventando per lei una figura paterna. Per la prima volta la figlia di una famiglia mafiosa ha il coraggio di violare la "legge" dell'omertà e di ribellarsi apertamente all'organizzazione. All'inizio Rita è animata dalla rabbia, dal desiderio di vendicare la morte dei suoi familiari, di fornire nomi che possano consentire di ricostruire l'omicidio del padre e del fratello, ma in seguito, grazie al rapporto di fiducia instaurato con Borsellino e con la sua squadra di giovani sostitute procuratrici, la ragazza inizia un percorso interiore difficile e coraggioso, che la porta ad aprire gli occhi sulle azioni criminali del padre e del fratello, a scoprire dolorosamente che gli uomini della sua famiglia, da lei tanto adorati e da cui si sentiva amata, capita, coccolata, non erano degli straordinari supereroi ma dei criminali, dei mafiosi senza morale, responsabili di veri e propri reati. Cresce in lei un vivo desiderio di giustizia, la speranza di un mondo più pulito. Alle giovani magistrate che raccolgono le sue testimonianze Rita appare come una ragazzina sveglia e intelligente, desiderosa di capire, ma insolitamente dura per la sua età. Fino a quel momento Rita conosceva solo quella realtà e solo quel tipo di persone, determinati comportamenti per lei erano normali, persino il suo fidanzatino era al soldo di una cosca mafiosa locale, ma ora capisce che esiste un mondo diverso, guarda la sua vita da una nuova prospettiva, interagisce con persone disponibili e accoglienti, che la trattano con gentilezza e come una persona, non come la figlia di don Vito. Matura in lei la consapevolezza e il desiderio che è possibile cambiare, che la sua vita può essere diversa. E Rita in poco tempo cambia davvero, rinasce. "Dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci." (Dal diario di Rita, 1992). "L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo, fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare? Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo." (dal tema di Rita per l'esame di idoneità al terzo anno segreteria, Istituto Alberghiero di Stato di Erice, 5 giugno 1992). 
Con le sue rivelazioni e con le pagine dei suoi diari Rita consente l'arresto e la condanna di decine di mafiosi. Diventa a tutti gli effetti testimone di giustizia, ma la sua vita è in pericolo, è vittima di intimidazioni e ostacolata dalla madre nella sua scelta di collaborare con lo Stato. Deve essere protetta, allontanata dal nucleo familiare e nel novembre 1991 viene trasferita sotto protezione e sotto falso nome a Roma, dapprima in un appartamento insieme alla cognata Piera Aiello e alla piccola nipotina Vita Maria, poi, su sua richiesta, da sola in una minuscola casa in via Amelia 23, quartiere Tuscolano, dove si trasferisce a luglio. A Roma inizia la sua seconda vita, sotto la vigilanza all'"Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa". Frequenta per venti giorni il liceo classico Augusto, si innamora nuovamente di un ragazzo "pulito" conosciuto nei Musei Vaticani e in servizio militare nella Marina, assapora la normalità, ma, nonostante sia minorenne, non viene nominato nessun giudice tutelare, nessun tutore. 
L'uccisione di Giovanni Falcone nel maggio del 1992 la riporta tragicamente alla realtà e le fa percepire che il programma di protezione non basta ad assicurare la sua incolumità, a difenderla dalla vendetta della mafia.
Quando il 19 luglio 1992 anche Borsellino viene ammazzato nella nota strage di via d'Amelio, la ragazza perde il suo principale punto di riferimento, l'unica persona di cui si fida: "Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta". Sette giorni dopo, il 26 luglio, Rita precipita dalla finestra del suo appartamento al settimo piano dove si è trasferita da due giorni e muore. 
Non aveva ancora compiuto 18 anni. Per sua volontà, espressa in un testamento scritto il 21 dicembre 1991, viene sepolta a Partanna accanto al fratello Nicola e al padre.
Nel 1994 l'inchiesta sulla sua morte viene archiviata come suicidio. 
Il coraggio di ribellarsi al sistema e alla cultura mafiosa, la voglia di riscatto, di legalità e di onestà fanno di questa giovane donna un simbolo di eroica lotta alla mafia. La sua figura ha ispirato libri (Andrea Gentile, Volevo nascere vento. Storia di Rita che sfidò la mafia con Paolo Borsellino, 2012, l'inchiesta di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto Io sono Rita. Rita Atria: la settima Vittima di Via D'Amelio, Marotta&Cafiero 2022) e il film La siciliana ribelle di Marco Amenta (2008).
Don Luigi Ciotti, fondatore di "Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie", la ricorda così: "Per noi vive, perché la sua vita spezzata ha generato tanti frutti. Soprattutto due: le donne di mafia che si ribellano ai padrini e i ragazzi della giustizia minorile, che hanno più o meno la sua età, che cercano altre strade, altri punti di riferimento, che fanno delle esperienze in un altro tipo di comunità, non quella mafiosa ma quella vera che riempie la vita di vita».

Puoi leggere il ricordo di Alessandra Camassa, presidente del Tribunale di Marsala, che seguì da sostituto procuratore il percorso di collaborazione di Rita insieme al suo 'capo' Paolo Borsellino, in occasione dei 25 anni dalla morte di Rita: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-picciridda-di-borsellino-tragedia-che-pu-dare-frutti 
Ecco invece il monologo che lo scrittore Roberto Saviano ha dedicato a Rita Atria durante il festival di Sanremo del 2022: Saviano ricorda Rita Atria (dal minuto 4.30 alla fine, per una durata di circa 6 minuti)
La ragazza con la Costituzione in mano
(Russia)
Una diciassettenne seduta in strada a gambe incrociate che legge a voce alta gli articoli della Costituzione russa, circondata dai temuti poliziotti russi in assetto antisommossa, una ragazzina che sfida i giganti senz'armi, solo con un libro in mano: è questa l'immagine, scattata il 27 luglio 2019, che ha fatto il giro del mondo. Olga Misik, allora diciassettenne, fresca di diploma con lode al liceo di Voskresensk, aspirante giornalista, lascia la sua cittadina a sud della capitale per andare a Mosca e manifestare per una Russia più libera, giusta, rispettosa dei diritti e delle libertà fondamentali sanciti dalla Costituzione, per ricordare ai cittadini russi che esiste una Costituzione, quella varata da Boris Eltsin nel 1993 dopo il crollo dell'URSS, ma continuamente disattesa dalle autorità, a cominciare dallo stesso presidente Putin. Olga, per nulla intimorita dai minacciosi agenti, comincia a leggere l'articolo 31, lasciando i poliziotti stupiti e perplessi: "I cittadini della Federazione russa hanno il diritto di riunirsi pacificamente, senz'armi, di tenere riunioni, comizi e dimostrazioni, cortei e picchetti"; poi l'articolo 3 che indica il popolo come "unica fonte del potere", l'articolo 32 sul diritto a "partecipare alla direzione degli affari dello Stato" e a "Eleggere ed essere eletti negli organi del potere", l'articolo 29 che sancisce "libertà di pensiero e di parola", l'articolo 21 sul divieto di tortura.
Olga è stata fermata dalla polizia, ma è tornata a manifestare nei giorni successivi per le strade di Mosca, determinata e convinta che "noi giovani possiamo fare tutto, cambiare il mondo e costruire un futuro più luminoso"; è diventata un simbolo della resistenza pacifica russa.
"Non ho paura né di arresti, tribunali, multe, scontri con la polizia né di essere torturata o sbattuta in cella. Sfortunatamente, tutto questo è prassi frequente in Russia", ha dichiarato in un'intervista. "Vorrei dire alla gente la verità, vorrei cambiare il mondo con l'aiuto delle parole. Non ho modelli né in politica né nel giornalismo. Mi entusiasma solo l'idea di una me stessa migliore".
"Io sono pronta a dedicare la mia vita a questa causa e, se necessario, a sacrificarla. Sarà pure una velleità giovanile, ma morire per un futuro più luminoso è la migliore morte e il miglior futuro che io possa sognare".
Attualmente Olga, non più protetta dalla minore età, sta scontando una condanna a due anni e nove mesi di "limitazione delle libertà" con l'accusa di vandalismo per un filo sottile di vernice rossa lavabile colato da un manifesto da lei affisso sulla sede della procura generale di Mosca. “Sono sotto processo per il mio attivismo, per la mia posizione civica attiva, per le mie opinioni e la volontà di difenderle. La Russia non vuole cittadini che hanno opinioni, tanto meno cittadini pronti a lottare per esse. Dopo quella lettura della Costituzione, sono stata regolarmente minacciata col carcere dalle forze di sicurezza. Censura, mancanza di libertà di parola, di stampa e opinione, di giustizia equa e di elezioni oneste, arresti preventivi, omicidi di oppositori politici: la Russia ci insegna ad aver paura, una paura offuscata dalla disperazione, ma non è necessario combattere la paura. È una reazione naturale. Il coraggio non è non aver paura, ma agire nonostante la paura. Dobbiamo combattere non contro la paura, ma contro la sensazione d’impotenza che ci viene inculcata.”

Guarda il video pubblicato da "La Stampa" (durata 1.26) sulla protesta e l'arresto di Olga: https://video.lastampa.it/esteri/olga-misik-l-adolescente-che-sfida-putin-leggeva-la-costituzione-in-piazza-l-hanno-arrestata/102106/102116?

Le citazioni delle parole di Olga sono tratte dagli articoli di Rosalba Castelletti pubblicati sul "La Repubblica", Olga "Noi giovani non abbiamo paura. Cambieremo Mosca (9 agosto 2019) e Olga Misik, la ragazza della Costituzione: la Russia di oggi non è diversa dalla Germania nazista (9 maggio 2021)

Medaglia d'oro in carrozzina 
(Italia)
Beatrice Vio, detta Bebe, nata a Venezia nel 1997, a 19 anni è diventata campionessa paralimpica mondiale di fioretto individuale (Rio 2016) ed è stata scelta come una delle "eccellenze italiane" per  partecipare all'ultima cena di Stato della Presidenza Obama alla Casa Bianca (18 ottobre 2016). La sua incredibile storia è la dimostrazione di quanto la forza di volontà, la fiducia e la passione possano permetterci di superare anche ostacoli insormontabili e di pensare che niente è impossibile. La sua vittoria più importante Bebe l'ha ottenuta a soli 11 anni, contro un avversario particolarmente temibile e difficile da sconfiggere: una forma di meningite acuta che costrinse i medici, per salvarla, ad amputarle le gambe e gli avambracci e che le ha lasciato cicatrici sul viso e sul corpo. Dimostrando un'energia travolgente e un'autentica passione per la scherma, Bebe stupì medici e amici ricominciando ad allenarsi a distanza di un solo anno dall'intervento.
Oggi è l'unica atleta al mondo a praticare il fioretto con una protesi. Le braccia bioniche pesano circa due chili e mezzo e rendono ancora più faticosi movimenti, ma, grazie ad un'incrollabile determinazione, Bebe è arrivata fino alle Olimpiadi di Rio dove ha sbaragliato le insidiose avversarie cinesi.
Bebe ha raccontato la sua storia nei libri Mi hanno regalato un sogno e Se sembra impossibile allora si può fare, incontra i ragazzi nelle scuole incoraggiandoli a seguire le loro passioni e insieme ai genitori ha fondato l'associazione Art4Sport che promuove lo sport come terapia per i bambini amputati. Proprio perché Bebe è diventata fonte di ispirazione per tante bambine, la Mattel, una delle più grandi case produttrici di giocattoli, le ha dedicato una speciale "Barbie one of a kind", con tenuta da scherma e protesi. 
Durata del video: 7.30

La paladina dell'ambiente più famosa al mondo 
(Svezia)
Lunghe trecce bionde, sguardo serio e corrucciato, discorsi arrabbiati sono ormai i segni distintivi di questa ragazzina svedese che ha fatto della difesa del clima la sua missione, da quando, a soli 9 anni, per la prima volta sentì parlare del riscaldamento globale. "Il mio nome è Greta Thunberg, ho quindici anni e vengo dalla Svezia. Molte persone dicono che la Svezia sia solo un piccolo Paese e a loro non importa cosa facciamo. Ma io ho imparato che non sei mai troppo piccolo per fare la differenza. Se alcuni ragazzi decidono di manifestare dopo la scuola, immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente." Alla conferenza mondiale sul clima COP24 di Katowice (Polonia) nel dicembre 2018Greta iniziò con queste parole il suo discorso, breve, semplice ma chiaro e diretto, che sorprese tutti e che ha risuonato poi come un duro rimprovero nei confronti dei leader del pianeta"La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Voi dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, ma state rubando loro il futuro davanti agli occhiVoi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo."
Greta è affetta da sindrome di Asperger, ma né la malattia né la giovane età le hanno impedito di diventare una delle più convinte e influenti attiviste in difesa dell'ambiente. Anzi, la dedizione per la causa ambientale l'ha aiutata a superare le difficoltà a interagire con coetanei, a vincere la tendenza all'isolamento, e ad arrivare addirittura a parlare in pubblico davanti a platee e folle sterminate. D'altra parte proprio questo interesse speciale, intenso ed esclusivo è un tratto tipico della sindrome di Asperger: “Il mio cervello funziona diversamente e per questo io vedo le cose in bianco e nero. O poniamo una fine alle emissioni o non lo facciamo“.
Ostinata e appassionata, Greta da anni studia e approfondisce il riscaldamento globale ed è diventata un'icona della lotta contro i cambiamenti climatici. A partire dal 2018, a soli 15 anni, in segno di protesta, per settimane ogni venerdì decise di scioperare dalla scuola e di organizzare dei sit-in nei pressi del parlamento di Stoccolma, esibendo cartelli e distribuendo volantini, per chiedere al governo svedese e agli altri Stati di agire e di attivarsi concretamente contro i cambiamenti climatici. Sebbene la Svezia sia uno dei Paesi europei più impegnati nella riduzione delle emissioni di gas serra, continua a emettere gas climalteranti e a subire le conseguenze del riscaldamento globale: durante l'estate 2018 il Paese fu colpito da incendi e ondate di calore record. Proprio le anomale temperature registrate nel suo Paese, le più alte da più di 200 anni, spinsero Greta ad agire in prima persona. "Sto manifestando perché è una mia responsabilità morale farlo, voglio che i politici mettano la questione climatica tra le loro priorità e la considerino come una crisi vera e propria", ha dichiarato ai giornalisti che l'hanno intervistata. 
La sua protesta, grazie ai social media come Twitter e Instagram e all'enorme risalto datole dai media internazionali, è diventata virale e un modello per i giovani, tanto da ispirare un movimento globale per l'ambiente chiamato FridaysForFuture, espressione di una nuova presa di coscienza ambientale che viene dal basso e si alimenta dell'energia e dell'intransigenza dei giovani. 
Le iniziative di Greta continuano ad avere forte impatto e risonanza a livello internazionale, tanto che nel gennaio 2019 la giovane ha partecipato al Forum economico mondiale di Davos, in Svizzera, dove ha lanciato un nuovo durissimo atto d'accusa nei confronti dell'inerzia e dell'indifferenza dei potenti del mondo (politici, banchieri, finanzieri): "Our house is on fire. Secondo l'IPPC, siamo a meno di 12 anni dal non essere più in grado di annullare i nostri errori. Il successo finanziario è costato un prezzo impensabile. Adesso è il momento di parlare chiaramente: risolvere la crisi climatica è la sfida più grande e complessa che l'Homo sapiens abbia mai affrontato. La soluzione principale è così semplice che persino un bambino piccolo può capirlo: dobbiamo fermare le emissioni di gas serra". 
Aspro, indignato e vibrante di rabbia è il rimprovero che la giovane attivista ha pronunciato il 23 settembre dello stesso anno al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York: "Avete rubato i miei sogni. Come osate? Ci state deludendo, ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento, gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi, e se sceglierete di fallire non vi perdoneremo mai".
Insieme alla madre, al padre e alla sorella, Greta ha scritto un libro, pubblicato in Italia con il titolo La nostra casa è in fiamme. Per seguire Greta: https://twitter.com/gretathunberg

Il discorso di Greta a Katowice, dicembre 2018. Durata del video: 3.18 (sottotitoli in italiano)

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